Alessia Pifferi ha accusato il suo compagno per quanto successo alla figlia, denunciando una sorta di sudditanza psicologica subita.
È il compagno il principale responsabile della morte della figlia. Questa la tesi difensiva di Alessia Pifferi, che in aula ha spiegato la sua visione dell’amore: per lei l’uomo ideale non coincide con l’avventura ma con una stabilità emotiva e familiare impossibile da ricercare altrove.
Bisogna partire da qui per spiegare il ‘non ricordo’ alla domanda ‘chi è il padre biologico di sua figlia?’. Pifferi, prima di conoscere l’uomo residente a Leffe, aveva intrapreso una relazione (finita male) con un altro uomo, prima di troncare definitivamente la storia.
Ed è per questo che la donna non sarebbe in grado di spiegare se la piccola Diana fosse frutto della relazione con l’uno o con l’altro uomo. “Con lui mi dimenticavo di Diana”: questa la spiegazione data alla Corte per aver lasciato sei giorni incustodita la neonata, facendola morire di stenti, per stare a casa del compagno originario di Leffe.
Un potere che si sarebbe presto trasformato in sudditanza psicologica, impossibile da contrastare. “Aveva il potere, quando è entrato nelle nostre vite la mia mente si è offuscata”, spiega Alessia Pifferi. L’idea di lasciare la piccola da sola in casa potrebbe quindi essere stata dell’uomo, come rivela: “Lui mi propose di lasciare a casa la bambina per andare a fare la spesa”.
Secondo il perito Garbarini, psichiatra nominato dalla difesa: “La signora comprende le domande ma la qualità delle risposte è da disco rotto. È affetta da un disturbo dello sviluppo intellettivo, e quindi da una patologia psichiatrica.”.
E poi ancora, prosegue: “Guardando alla vita della signora Pifferi come si fa a dire che non ci sia stata una compromissione del suo funzionamento in tutte le aree? Ha un funzionamento assolutamente menomato. Lo ha sempre avuto, fin da quando andava a scuola”.